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IPER REALISMO E DEPRESSIONE

L’Iper- REALISMO E LA DEPRESSIONE
(in memoria di Mark Fischer)
È morto suicida il 13 gennaio 2017 a 48 anni, Mark Fisher, noto anche con lo pseudonimo di k-punk: è stato un filosofo, sociologo, critico musicale, blogger, saggista. La sua lotta contro la depressione è stata trattata da Fisher stesso in vari articoli e nel suo più famoso libro, Realismo capitalista, nel quale ha affermato che “la pandemia di angoscia mentale che affligge il nostro tempo non può essere capita adeguatamente, né curata, finché viene vista come un problema personale di cui soffrono singoli individui malati”. Realismo capitalista è un breve saggio circa quali forme, la cultura, soprattutto di sinistra, possa assumere. se vuole essere in grado di ripensare il futuro. Un saggio di riflessione sugli immaginari dominanti dell’attualità del postmoderno.”There is no Alternative” al capitalismo è un dogma che è stato introiettato non solo nelle forze politiche, ma nello stesso inconscio collettivo e come dice Fischer “è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo” con ricadute drammatiche sia in campo politico-sociale che psichico. Questo realismo capitalista, che equivale ad uno stato d’animo di impotenza, si riflette poi in diversissimi campi, sui singoli e sulla comunità, sulla malattia mentale, sulla burocrazia, sul sistema scolastico, sull’ambiente. La delusione della grande promessa del progresso inarrestabile, la globalizzazione, il dominio dei mercati che hanno sostituito la divinità dei secoli precedenti, la riduzione di ogni cosa a merce, si ripercuotono sulle prospettive del futuro. In questo momento, secondo il filosofo Costanzo Preve, non vi è un pensiero né una visione del futuro in grado di reagire in modo efficace a questa situazione, ma solo spunti qua e là, non ancora disponibili per essere operativi. Quello che colpisce è che nonostante la lucidità nel descrivere una dimensione sociale disperata e senza speranza, e la consapevolezza dei notevoli condizionamenti culturali a cui l’uomo moderno è sottoposto, Fischer si sia definito più volte “un buono a nulla”. Un buono a nulla che rimanda apparentemente e razionalmente ad una dimensione sociale, alle domande che la società rivolge al soggetto, alle pressioni identitarie che ci spingono a voler essere quello che non riusciamo ad essere.
Ma tutto questo non è sufficiente per spiegare la depressione che è qualcosa di più profondo, che si esplicita appunto nel discorso manifesto, in un conflitto fra desiderio e impotenza, ma che in realtà si alimenta da un fuoco interno spento, Nella sua forma più elementare l’affetto depressivo corrisponde ad un vissuto d’impotenza cioè all’essere inermi e disperati di fronte ad una situazione che è intervenuta e che non si può cambiare. Dal punto di vista psicodinamico vi è un’identificazione con “un oggetto” psichico perduto, del passato, con cui il soggetto s’ identifica, che fu tanto amato ma anche molto odiato. Nel presente del soggetto quella ostilità e quell’amore, ora investe quella parte dell’Io che si è identificata con esso. (Freud).Il carico di odio ritorna quindi sull’Io come autoaccusa e senso di colpa in un circolo vizioso che, in casi estremi, porta al suicidio.

L’ANGOSCIA

LA  PAURA  E  GLI ESPERTI  E  LA SCIENZA

 

 

Enzo Dal Ri —-

Psicoterapeuta-Neuroftalmologo

“L’uomo è l’essere che si pone domande alle  quali non è in grado di rispondere”.E.Kant

 

 

Cosa ci spinge nelle braccia degli esperti ?

Naturalmente il terrore.” È quello che porta il prete e il dottore nei loro lunghi abiti a correre attraverso i campi” come scriveva  P. Larkin, nella sua poesia “Giorni”.

L’angoscia è considerata una emozione negativa ma potrebbe avere anche una sua funzione positiva: come quella di spingere la persona a risalire da uno stato di inautenticità ad uno con maggior autenticità ,dalla banalità  che ci fa perderci, alla vita con un’ autonoma scala di valori. L’angoscia fondamentale , vale a dire “la mitica certezza”, che colpisce tutti, è quella di essere nati e di dover morire, entrando nel nulla eterno. Nell’angoscia non incontriamo qualche cosa che ci spaventa, ma l’angoscia è la sensazione del nulla.

Ognuno di noi è un soggetto finito, temporaneo: sotto i  nostri piedi si spalanca questo fondo del nulla da cui emergiamo con la fatica di vivere ,ma consapevoli o no, avvertiamo continuamente la presenza di questo abisso .Fortunatamente abbiamo diversivi che ci tengono lontano dal dover sopportare tutta l’angoscia del sottofondo.

Della nostra morte  non abbiamo esperienza ma nemmeno di quella degli altri. Essere soggetti per la morte consapevoli dovrebbe spingerci a vivere e progettare la nostra esistenza, seppur marchiata dalla incompletezza, all’interno di un orizzonte di finitezza, in modo tale da sentirci un progetto in divenire.

L’analisi dell’angoscia ha la funzione…..di preparare la strada alla questione in base a qual senso … l’uomo in generale venga posto di fronte a qualcosa come il nulla? L’analisi dell’angoscia è impostata in relazione al fatto che la possibilità di pensare qualcosa come il nulla, anche soltanto come idea, sia fondata congiuntamente in questa determinazione della tonalità affettiva che è l’angoscia. Soltanto se comprendo il nulla, o l’angoscia, ho la possibilità di comprendere l’essere. L’essere è incomprensibile, se è incomprensibile il nulla. (Heidegger)

Per Heidegger, nell’angoscia e nel permanere in essa, l’uomo trova la propria collocazione e  proprio nell’angoscia, nell’essere-per- la morte,  trova la consolatoria promessa dell’autenticità.   

Per il filosofo neo-kantiano, E.Cassirer, l ’animal symbolicum, l’essere umano , può trovare rifugio dall’angoscia asfissiante, solo immergendosi nel mondo simbolico, infatti per  Cassirer : ”il simbolo non è un rivestimento meramente accidentale del pensiero, ma il suo organo necessario ed essenziale, che esso non serve solamente allo scopo di comunicare un contenuto già bello e pronto, ma è lo strumento in virtù del quale esso acquista la sua compiuta determinatezza,”

Il mondo simbolico ove l’uomo si trova immerso fin da subito, è il luogo ove si concreta l’umanità dell’uomo e dove esso, esprimendo la propria libertà, realizza tanto se stesso, divenendo propriamente umano,  quanto il mondo che lo circonda, appunto,umano. 

Per Cassirer,  le diverse sfere simboliche, dal mito al linguaggio, all’arte, alla storia, alla scienza sono i campi che aprono all’umanità dell’uomo. Campi che gli permettono di incontrare le cose, concepire se stesso: la sfera simbolica determina le modalità con cui il mondo e se stesso si presentano a lui e come il mondo verrà inteso e come intenderà se stesso. 

L’uomo è dunque creato dalla cultura, è in un certo senso lo scopo stesso della cultura,  nel senso che, proprio questo essere dell’uomo un tutt’uno (in  quanto ne è creato ed insieme la comprende) con la cultura fa dell’uomo un uomo (  distinguendolo dall’animale) e, insieme, sviluppa il mondo quale mondo proprio dell’uomo. In questo senso non è possibile, pensare a rapporti di  mondo immediati, privi di quel carattere di mediatezza proprio delle forme simboliche con cui  l’uomo costituisce se stesso e il proprio mondo, frenando e regolando in qualche modo l’angoscia della morte.

Infine uscendo da un discorso generale, l’angoscia della singola persona nel qui ed ora, abbisogna però di metodi e risposte che siano in grado di contenere questa difficile emozione, per permettere di ritrovare una qualche riappacificazione fra se stesso e il mondo. Questo in ambito psicologico avviene quando si attivano le nostre difese verso l’angoscia.

La difesa demografica (i figli),la difesa religiosa, l’ideologia(le mie idee sopravviveranno)la difesa estetica, la bellezza, la musica , la letteratura, la poesia) la scienza, anche se la difesa più importante e centrale è probabilmente l’amore.

Riguardo alla scienza come difesa si può sottolineare come vi siano  due concezioni di scienza.

Una scienza con la S maiuscola fatta di congetture, di ipotesi, approssimazioni, certezze provvisorie, cambi di paradigma, verità fragili, molte volte temporanee che possono essere sconfessate; senza certezze. E’ il regno dell’incerto, del discutibile, ove il non conosciuto supera di gran lunga il conosciuto, e quando, lo scienziato dice di non sapere non tradisce la sua vocazione ma la compie.

Le teorie psicoanalitiche e molti dei loro esperti, intendono  però la scienza con la s minuscola. Questa versione è univoca, rigida, con metodi chiari, capace di interpretare, di descrivere e trasformare la realtà con meccanismi privi di incoerenza e di contraddizioni. Le sue conclusioni vanno accettate con trasporto fideistico. Le conseguenze di questa scienza sono presentate come irrefutabili, questa scienza descrive ,spiega, convince con parole definitive su molti argomenti.

Non è fallibile, ma dogmatica, esclude l’incertezza come stato strutturale. Da questo tipo di scienza ci si aspetta capacità predittive. 

Questa versione di scienza risponde più ai bisogni di certezze ed alla ricerca di rassicurazioni, perché la vera scienza a volte ci profila scenari che spaventano : l’incertezza spaventa.  

Si chiarisce allora che il ricorrere alla scienza dei professori e dei divulgatori è un ulteriore meccanismo di difesa verso l’angoscia della precarietà dell’uomo.

IL Premio Nobel della Fisica, per gli studi sull’elettrodinamica quantistica,  Richard Feynman,  in un’intervista dichiarò come l’ignoranza non lo mettesse a disagio:

“Posso vivere con il dubbio, l’incertezza, senza sapere. Penso che vivere senza sapere sia molto più interessante che avere risposte che potrebbero essere sbagliate. Ho risposte approssimative e credenze plausibili e differenti gradi di certezza riguardo a cose diverse. Ma non c’è niente di cui sia assolutamente sicuro e ci sono molte cose di cui non so nulla, per esempio se abbia senso chiedersi perché siamo qui e che significato potrebbe avere questa domanda. Potrei pensarci per un po’; se non mi riesce di scoprirlo allora passo a qualcos’altro. Ma non devo avere una risposta per forza. Non provo paura se non conosco le cose, se sono perduto in un universo misterioso senza nessuno scopo, che poi è come stanno realmente le cose, per quanto ne so – forse. Questo non mi spaventa”.

Anche la psicoanalisi come la medicina e la religione cerca di trasformare il panico in senso: cerca di rendere tollerabile la paura, e cosa fa?

Mediante “ conversazioni” con un’altra persona. La presenza di un’altra persona che è lì fisicamente ad ascoltare in odo attivo, rappresenta il rimedio, ancora attuale escigitato da Freud. La conversazione ha la capacità di trasformare il modo in cui appaiono le cose, perché come sosteneva dice Epitteto:

“Non sono gli eventi ma il nostro punto di vista riguardante gli eventi che è il fattore determinante. Dovremmo essere più preoccupati di rimuovere i pensieri sbagliati dalla mente che rimuovere gli ascessi e i tumori dal corpo.”

E l’esperto? Quando una persona inizia a considerarsi un esperto?

Lo psicoanalista è esperto in cosa infanzia,sessualità,amore,sviluppo,sogni,corpo,inconscio,infelicità sofferenza, su come vivere e chi essere, oppure su come la nozione di inconscio agisca sull’idea di competenza, se l’inconscio è quella parte di noi non governabile?

Ormai ogni cosa è soggetta al parere dell’esperto

(dal lutto,all’amore),stiamo vivendo nell’epoca dello specialista, in questo senso la psicoanalisi potrebbe risultare utile come critica dell’intero progetto di “cercasi autorità”. 

La psicoanalisi ,in quanto sovversiva del’Io penso,dovrebbe mettere radicalmente in discussione l’idea di competenza e del ruolo del sé professionale. Il fatto di aver frequentato scuole e corsi, di appartenere ad un club non autorizza a considerarsi come un cardiochirurgo che usa una tecnica efficace, perché proprio per la presenza dell’inconscio, lo psicoanalista impara presto a non sapere quello che sta facendo e a muoversi in un campo, l’inconscio appunto, che è quella parte di noi che aderisce alle cose senza essere mai d’accordo. Qualche cosa dentro di noi che parla a sproposito: con l’inconscio non si sa mai dove si è.

Essere una persona significa anche incontrare quella parte di noi che si comporta come fosse qualcun altro, a volte estranea a noi stessi, per cui essere esperti dell’inconscio sembra una contraddizione in termini. Il controllo e il linguaggio della volontà non funzionano, come ben sanno tutti coloro ,pazienti e terapeuti che hanno a che fare con sintomi psichiatrici.

Il sapere dello psicoanalista se ne esiste uno dovrebbe essere  alla fine quello che riguarda la sofferenza dell’uomo, racchiusa in alcuni tipi di comportamento e strutture mentali che si manifestano attraverso i sintomi.

L’aspirazione di Freud era quella di fondare una nuova scienza chiamata psicoanalisi che si potesse allineare alla prestigiosa professione medica. Ma poi la psicoanalisi è venuta ad assomigliare quasi più a fare il genitore, a fare congetture, ad una specie di iniziazione,ecc. L’esperto in psicoanalisi poi corre il rischio di credere di sapere come le persone dovrebbero vivere ed è allora che diventa paternalista. Interpretando il ruolo del genitore verso il quale il bambino si rivolge nella convinzione che il genitore sappia e capisca tutto in un atteggiamento di dipendenza acritica. Ma cosa è una persona, cosa significa vivere una vita e in che modo si debba vivere, nessuna si trova nella posizione di  poterlo dire. Ma per il bambino, il linguaggio degli adulti è il linguaggio degli esperti:

qualcuno deve essere a conoscenza di come stanno le cose veramente. Ed ecco allora che la paura spinge a rifugiarsi in qualche cosa di superiore, o al linguaggio dei tecnici o al linguaggio autoritario. Cosa significa credersi esperti nella sessualità ,nell’amore, nell’odio?

E’ sufficiente per lo psicoanalista fare dei corsi, supervisioni, ecc. senza mettere sul piatto della bilancia la qualità della sua vita, rispetto all’amore, alla sessualità : sapere non è anche automaticamente essere.

E’ difficile per l’esperto, rimanere nella figura del prototipo dello scienziato aperto alla ricerca ed alle sue conseguenze,senza cercare rifugio nella tecnica. o nel paternalismo. 

Al pari di politici e religiosi ci si raccontano storie persuasive che ci dicono cosa fare. Molte volte gli psicoanalisti si comportano come se avessero compreso qualche cosa e spesso dimenticano che stanno raccontando storie e che tutte le storie sono uscite da altre storie precedenti, suscettibili di infinite interpretazioni. 

Molti sanno cosa fare davanti alla paura: iniziando dalla più semplice risposta che è quella di non dover avere paura. L’uomo da quando è sulla terra è sempre stato immerso nella paura, ha dovuto e deve continuamente fare i conti con la continua presenza della paura.

Il Mulla Nasrudin, spargeva grano davanti a casa sua per  tenere lontane le tigri, sembra assurdo ma funzionava, di fatto attorno alla sua casa non vi erano mai viste delle tigri. Noi teniamo lontano la paura con delle storie che è il nostro grano. Queste storie si basano sui cosiddetti meccanismi di difesa che si attivano per regolare e ridurre gli effetti negativi di un eccesso di paura. Alcuni tipi di difese ci portano a negare la paura esponendoci in tal modo a pericoli evidenti. Le difese poi a volte sconfinano nella superstizione.

La psicanalisi è una storia attorno a ciò che fa paura: gli istinti, il desiderio, l’istinto di morte, la castrazione, l’essere violati, la separazione, l’esserer  abbandonati, la violenza, la pazzia, tutti aspetti che hanno portato alla fondazione della teoria psicoanalitica e della sua pratica.

Si suole differenziare la paura dall’ansia: la paura è determinata da un oggetto reale, un pericolo reale, mentre l’ansia è un sentimento mal definito in attesa di qualche cosa ma apparentemente  priva di un oggetto.

La paura è la cosa reale, è un riconoscimento della realtà: conoscere la realtà è l’antidoto alla paura. Se l’epidemia che mi spaventa si diffonde grazie a certi comportamenti questi vanno cambiati per ridurre il rischio di contagio.

L’ansia-angoscia è il capitolo più importante della psicoanalisi. L’essere nati, gettati nel mondo inaugura un rapporto con il mondo che si presenta minaccioso: il neonato muore se non è accudito da qualcuno. Questo qualcuno (i genitori) le cui cure permettono al bambino di crescere, da cui si sente protetto, diventa a loro volta fonte di angoscia: il prezzo che il bambino deve pagare per questa sicurezza è l’ angoscia della perdita dell’amore dei genitori e l’estrema dipendenza.L’angoscia della perdita dell’amore sarà fonte di ansia originaria e costitutiva che il bambino e l’adulto devono pagare per ottenere sicurezza: le connessioni infantili che continueranno a sopravvivere anche in età adulta sotto forme differenti.

Tutte le fasi della crescita, svezzamento, distacchi, ecc  sono in grado di attivare queste connessioni antiche. Le nostre fantasie di autonomia sono circondate da paura, soprattutto rispetto al futuro; l’aspirazione di libertà è permeata di paura. Infatti garantirsi l’amore è una strategia per contrastare la paura che a sua volta diventa la radice dell’illusione di una capacità dell’IO di controllarla ed evitarla.

La paura del nuovo che nasce dall’esperienza del passato, porta alla ripetizione che è più rassicurante (stesso schema di relazioni).L’ansia  è una forma di scetticismo, è una difesa contro una paura, il rifiuto di sapere quello che ci spaventa. 

Ecco allora che la funzione della psicoanalisi sarà quella di cercare trasformare l’ansia in paura per trovare il suo oggetto: trovare il suo oggetto significa rendere la paura razionale, intelleggibile e interpretabile, contro qualche cosa di irrazionale, irrealistico .

D’altra parte una volta che l’ansia si è insediata, inghiotte tutti gli altri sentimenti, tutto è trasformato in ansia.

L’indagine analitica procede per gradi, per prove ed errori come il metodo scientifico, proprietà fondamentale della scienza .Lo psicoanalista di fronte alle paure del paziente non sa, deve ricercare per  conoscere quello che il paziente stesso non sa.

LA FELICITA’

LA FELICITA IL MITO DELLA NOSTRA CONTEMPORANEITA

”Sopra la felicità non si può fondare un etica, come molti pretendono” Gustavo Bueno,filosofo.

E’ vero che possiamo essere felici?

Il termine felicità suscita attenzione, è sulla bocca di tutti, alimenta una letteratura dell’auto-aiuto, con molti libri: i lettori possono essere felici perché c’è un cammino verso la felicità ,solo che tu non sai. Non solo ma,il buffo è che  la biografia della singola persona non corrisponde mai alla teoria della felicità. La felicità riguarda sempre qualcun altro, anche da bambini solo nelle favole si diceva …e vissero felici e contenti.

Dio è morto disse Nitszche, ed è per questo che siccome non possiamo sperare nella felicità eterna, per lo meno cerchiamo di ottenerla in questa vita. Kant è l’artefice del fatto di aver elevato la felicità a categoria filosofica, separandola dalla virtù, come era nei tempi antichi, sostenendo che la felicità è una legge della natura. Infatti  questa idea di felicità è abbastanza recente.  La felicità è il destino dell’uomo: altrimenti perché vivere?

La felicità del passato era un mito dei plebei che la utilizzavano come un’ideale nei confronti dell’aristocrazia, ritenuta felice, un privilegio di pochi. L’idea di felicità è sempre cambiata a seconda delle società e delle epoche e delle classi sociali. Nella modernità è un ideale di vita che spinge una grande quantità di persone a cercare la felicità. La felicità è un diritto come dice la costituzione americana. Per cui felicità in senso politico, come democrazia, libertà, fraternità, solidarietà. Vi è poi l’accezione di felicità in termini poi biologici, per cui terapia della felicità, ricerche sul cervello, delle aree che danno piacere, droghe, farmaci. Felicità psicologica dello stato fetale, interrotta dalla infelicità della nascita, rimediata dalla presenza della madre.

Per Orazio la felicità era ”Beatus ille qui procul negotiis”, per Epicuro è la vita etica e non del piacere che dà felicità, per Seneca l’allontanamento dalle passioni.

Una volta la felicità consisteva nel fare bene il proprio dovere attualmente consiste nel seguire il proprio desiderio, solo che sapere quale sia il proprio desiderio e prendersene la responsabilità è molto arduo. Molti desideri sono prodotti e indotti culturali. In questo modo veniamo intrappolarti in un circuito che pretende  che ci impegniamo per ottenere questo obiettivo, irragiungibile, che si chiama felicità. Siamo vittime di una vera e propria tirannia della felicità che cerca di negare esperienze umane comuni come la noia, la tristezza, il dolore o il fallimento.

Il sistema capitalistico a cui apparteniamo cerca in tutti i modi di fare corrispondere l’idea di felicità con il possesso di beni materiali, possibilmente sempre diversi e nuovi, nell’eterna illusione che possedendone qualcuno o più di questi saremo felici. La seconda modalità, meno evidente, ma più subdola, dando per scontato il fatto che  siamo  noi gli artefici della nostra felicità e i primi responsabili, si presenta con l’ossessione del benessere psico-fisico, l’auto aiuto, corsi di coaching, tecniche meditative e varie altre attività che periodicamente diventano di moda. In passato la felicità non era considerata un obiettivo raggiungibile ma consisteva nel essere in sintonia con i valori della società, era vista come caratterizzante le classi sociali più elevate. La realizzazione di sé un altro mito del nostro tempo che si regge su due termini confusi, vale a dire cosa significhi realizzazione e cosa sia quella cosa che tutti chiamiamo sé.

L’idea di felicità ha una struttura equivoca, confusa con molte accezioni, disconnesse fra loro. E’ una idea ambigua, come l’idea di anima, di fraternità, di pace perpetua.

La felicità a volte viene identificata con i piaceri del corpo, come diceva Eraclito:anche i buoi sono felici quando trovano l’erba da mangiare; Aristippo proponeva un’idea di felicità come sensazione di benessere del momento .Concetto molto presente nella nostra cultura. Basti pensare al machaco con un elettrodo nell’ipotalamo che spingendo una leva si procura uno stimolo piacevole: il machaco muore di fame e di sete perché tutto il giorno è occupato ossessivamente a pigiare la leva.

La felicità come eudaimonia: realizzare il tuo demone

Oppure felicità  nell’esperimentare il subkime: fuori di limite, su terreni non accessibili, come nella contemplazione, nel rapimento mistico per cui felicità nel sentirsi esseri eterni o vicini a Dio, un’ esperienza puramente immaginaria.

Come sostiene il filosofo Javier Gomà,”il concetto di felicità come un completamento di un fine è impossibile nel soggetto moderno, come era nel passato dove era sufficiente realizzare la funzione che si aveva nella società, nella famiglia per essere felici per tutto il resto della vita. Per Gomà la felicità andrebbe sostituita con il concetto di “dignità”.

Sotto il concetto di felicità vi sta il mito della vita perfetta, realizzata, della vita piacevole, uno stato d’animo sereno e perenne, idee che sono l’estensione di una concezione romantica della vita.

Ecco allora l’altra versione di felicità: il benessere, determinato dalla capacità di gestire le proprie emozioni: è tanto importante ridere, come piangere, sentire la tristezza, l’ansia, ecc.

L’uomo tende naturalmente al piacere allontanando quello che non gli piace.

Interessanti i sei parametri proposti in uno studio di dell’università di Harvard per la felicità:

1.dar valore all’amore

2.dare importanza alle relazioni amicali e familiari

3.non abusare di alcolici

4.non dare troppo peso al denaro

5.essere ottimisti

6.non cadere nell’impero della felicità